lunedì 21 luglio 2008
Bozzola. Avevo giurato di non rimetterci mano. Un giorno impareremo a usare le virgole.
Il pozzo della strega era quanto restava di un vecchio rudere. Prima di venire giù completamente era uno di quei luoghi capaci di innescare, nel tempo di uno sguardo, l'incanto sfrontato che fende le anime giovani. Lo fasciava per intero una magia combustibile, germogliata e fiorita con i rampicanti per un'infinità di stagioni attorno a centinaia di pietre e di anni affastellati, e di uomini e di storie. Reno ci arrivò con le caviglie massacrate dai baci delle ortiche ed un largo anticipo sulla mezzanotte pattuita. Acchiappò un refolo di passaggio e lo mandò giù con gusto: lassù l'aria era sempre molto più respirabile di quella che, salendo, si lasciava a valle. Tese l'orecchio al mezzo silenzio della notte d'altura, per abitudine, e perché gli gocciolò in testa la consapevolezza che quella era l'ultima volta. Sentì affiorare alla memoria la voce del vecchio Fubrio, seduto in veranda con la nonna, che raccontava per la milionesima volta la favola sulle migrazioni dei grilli ammutoliti. Dedicò a quel ricordo il suo miglior sorriso mesto, supponendo che il capo di filo di quel suo pensiero sull'aria fresca aveva da essere annodato in un luogo lontanissimo del passato. Da bambino si chiedeva spesso che forma potessero avere i pensieri, col tempo era arrivato alla conclusione che dovevano avere l'aspetto di fili, lunghi come pezzi di vita, con un capo legato ad uno scampolo di tempo e l'altro alla morte. Tutti i fili stanno nella testa e nella vita, e succede che si imbrogliano, si annodano, e qualche volta è pure utile pettinarli. Qualcuno è persino capace di usarli per tessere una storia, e non serve per questo un sarto abile, quel tanto che basta per attaccare bottoni. Insomma: una volta allacciato un filo te lo srotoli dietro per sempre, e così capita che quello qualche volta torni a fare capolino dalla matassa.Raccogliendo una pietra osservò, con un certo disturbo, che era grande e pesante quasi come la manaccia di suo padre. Pestò i tre colpi di rito sopra il masso ancora tiepido, si sa mai che a qualche serpente salta in testa la stravaganza di uscirsene a prendere l'aria fresca, pure lui. Attese ancora un po' prima di sedersi, gettò a terra il suo sacco e fu quel tonfo da panico a suggerirgli di guardare un po' intorno, tanto per accertarsi di essere solo. Perlustrò la zona con lo sguardo. A dirla tutta poi, aveva immaginato il momento molto più buio. Quella notte invece una luna curiosa spiava da vicino, col suo faccione lattescente che pareva spiaccicato contro l'atmosfera terrestre come, sul vetro di una finestra, il nasino di un bimbo che aspetta il bel tempo. La povera collina, così illuminata, sembrava la testa pallida di un vecchio in rotta per la calvizie. Un paio di mesi prima era stata divorata dalle fiamme appiccate da qualche criminale, e del gregge verde che l'aveva popolata per decenni non rimaneva che una schiera esanime di spoglie d'albero carbonizzate. Osservandola ebbe, come spesso gli capitava, la triste sensazione di appartenere ad una razza bislacca di bestie ottuse, sensazione che lo raggiungeva solitamente come una pedata sui denti, ma non quella notte. A schermarlo da tutte le pedate del mondo bastava l'idea che, di lì a poco, sarebbe saltato su un furgone meravigliosamente rumoreggiante, e addio. Oriente... Chissà... Oriente...Solo una parola calda e profumata, mistero di fiore chiuso, rosso negli occhi del toro, sabbia e lingue di fuoco in caduta libera da un cielo traboccante di bagliori. A pronunciarla sentiva una sfera d'aria fulgida e levigata vincergli le labbra, accarezzare la lingua e scivolare lungo il respiro fino a piombare sul fondo e rimbalzare su, trasformata in un gemito di euforia.
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